Paper Moon – Luna di Carta (USA 1973) Regia di Peter Bogdanovich con Rayan O’Neal e Tatum O’Neal
Raccontare la Grande Depressione senza usare toni melodrammatici e sensazionalistici non è compito facile. In modo molto fantasmagorico ci ha provato Charlie Chaplin con Tempi Moderni (USA 1936) riuscendo a raccontarci, praticamente in “presa diretta”, il grande dramma dei lavoratori durante la crisi, ridendoci sopra. Peter Bogdanovich, però, con questa pellicola, fa una scelta leggermente diversa, ci regala un racconto delicato, favolistico, on the road, che tocca il cuore e che diverte in maniera un po’ diversa rispetto all’opera di Chaplin.
La storia è alquanto surreale: a metà degli anni Trenta, Moses (Ryan O’Neal), un ambiguo venditore di bibbie, “prende in prestito” una ragazzina orfana, Addie (Tatum O’Neal, la figlia undicenne di Ryan), per intascare soldi facili; Moses crede di essere scaltro e di aver agguantato un buon affare, ma la bambina si dimostra ben più avveduta e astuta. Nasce così un’improbabile coppia dedita all’imbroglio, ma anche un rapporto genitore-figlio i cui ruoli si invertono in continuazione.
L’interpretazione della piccola Tatum, alla sua prima esperienza, è talmente realistica e convincente da farle aggiudicare un David di Donatello, un Golden Globe e un Oscar. Quest’ultimo, però, data la sua giovane età, le viene riconosciuto solo come attrice non protagonista, anche se a tutti gli effetti è la figura di spicco del film (Tatum rimane tutt’ora la più giovane attrice ad aver vinto la statuetta).
Il film convince per il suo impatto visivo, non solo per la minuziosa scenografia (Charles D. Hall, Russel Spencer): automobili, abiti, radio d’epoca e quant’altro, tutto ricostruito alla perfezione; e neanche solo per la fotografia (Roland Totheroh, Ira Morgan) in rigoroso bianco e nero, girato con una pellicola talmente sgranata da farlo sembrare girato effettivamente negli anni Trenta; ma soprattutto per l’atmosfera che lo pervade, che ci arriva dalle desolazioni degli Stati Uniti Centrali, dalle città semi deserte, dalle fattorie decrepite: è lo spettro della crisi, che non ci viene “raccontato”, non interferisce con la narrazione, ma gli fa da ombra, sempre lì presente, in tutta la sua miseria.
La miseria, infatti, è la palude in cui il regista fa sguazzare i suoi personaggi, senza mostrarli patetici, ma spesso sfrontati e divertenti, però, se lo spettatore si ferma a riflettere noterà che non c’è un solo personaggio “buono”, tutti sono balordi, furfanti e approfittatori; sono a un livello talmente basso da far apparire i protagonisti degli “eroi” alla meno peggio. Ed è in questo che il film ha tutta la sua forza, ci racconta uno spaccato di un paese in crisi, dove l’approfittarsi del prossimo è naturale, scanzonato, l’unico modo per sopravvivere.
Naturalmente a un film così ricercato nel ricreare l’atmosfera di quegli anni non può mancare una degna colonna sonora, che esce gracchiante dalle radio, piena di Blues e Swing, a partire dalla canzone dalla quale prende spunto il titolo al Film, It’s only a paper moon; a tal proposito, il regista, non contento del titolo del romanzo da cui è tratta la sceneggiatura, Addie Pray, imbattendosi nella canzone mentre era alla ricerca delle musiche per il film, decise di trarne il titolo e consultò l’amico Orson Welles per averne un parere, il quale rispose che il titolo era talmente perfetto che non avrebbe nemmeno dovuto girare il film, ma gli sarebbe bastato mostrarne il titolo.
Insomma, con questi presupposti non resta che augurare una buona visione.