Il jazz e il blues si sono sviluppati negli anni affermandosi a pieno titolo nella cultura musicale mondiale, contaminando sia la produzione colta, sia quella pop. Se ascoltiamo pezzi jazz o blues, spesso ci capita di riconoscerli senza ben spiegarci come abbiamo fatto. Una delle principali caratteristiche che accomuna questi due generi è la cosiddetta BLUE NOTE. Tecnicamente parlando, la BLUE NOTE è un’altezza ambigua che fa oscillare il mood del pezzo (da allegro a malinconico, da sereno a disperato), giocando con il suo “carattere”. Per chi avesse un po’ di dimestichezza con l’armonia, la BLUE NOTE è l’intervallo di terza che può variare da maggiore a minore (ad esempio, in un pezzo in DO maggiore, è un’altezza che può oscillare fra MI e MIb), rendendo il pezzo tonalmente ambiguo, sfuggente, indefinito.

L‘appellativo di Blue Note deriva dall’associazione mentale che viene fatta tra il colore blu e un senso di nostalgia e tristezza per l’uditore europeo o americano, abituato alla dicotomia tra tonalità maggiore e tonalità minore tipica della musica colta occidentale. La BLUE NOTE, infatti, vede le sue origini nella tradizione popolare afroamericana ed entra ufficialmente nella cultura musicale occidentale grazie alle opere di compositori come George Gershwin (Summertime, I got rhythm, The man I love) e Cole Porter (Night and Day), interpreti come Billie Holiday e Ella Fitzgerald, strumentisti come Charlie Parker e Fats Waller), fra gli altri, che hanno divulgato e reso grande tale repertorio.