Il Cotton Club e Savoy Ballroom furono i luoghi di spettacolo in cui la musica e i balli afro-americani trovarono un loro naturale incontro e dove, di fatto, si sviluppò la Swing ERA. Questi locali trovano origine nei Rent Party della Harlem degli anni Venti, vere e proprie feste casalinghe in cui gli inquilini assumevamo un musicista o una band per divertirsi, con la finalità, però, di raccogliere fondi per pagare l’affitto; qui avvenivano i cutting contests che coinvolgevano musicisti i quali si alternavano, sfidandosi, al pianoforte.
I due night club si trovavano entrambi a New York, ma avevano due impostazioni molto diverse.
Nella prima gestione del Cotton Club viveva ancora il pregiudizio razziale, per cui l’accesso ai neri era vietato. Per comprendere il clima nel quale era immerso il club è sufficiente sapere come nacque: 1920, Jack Johnson, pugile campione dei pesi massimi, aprì il Club, chiamandolo Club Deluxe, all’incrocio tra la 142ª Strada e Lenox Avenue ad Harlem. Owney Madden, un noto gangster contrabbandiere di bevande alcoliche, si impadronì del club nel 1923 mentre stava scontando una pena a Sing Sing e cambiò il nome in Cotton Club. Gli spettacoli riproducevano l’immaginario razzista e discriminatorio dei tempi, dipingendo i neri come dei selvaggi in giungle esotiche o come darkies nelle piantagioni dell’America meridionale. Le ragazze che vi lavoravano dovevano essere “tall, tan and terrific”. Duke Ellington divenne qui famoso e, grazie a lui, lo stesso club arrivò a modificare la sua politica di esclusione del pubblico di colore. A lui si susseguirono CabCalloway e Jimmie Lunceford; tra i ballerini Bill “Bojangles” Robinson e gli spettacolari fratelli Nicholas.
Se il Cotton Club fu luogo di spettacoli, in parte razzista e intriso di malavita, il Savoy fu molto più democratico – potevano accedervi tutti – forse perché inconsapevolmente memore delle umili origini e maggiormente legato al ballo. Nella downtown il club era noto come “the Home of Happy Feet” ma ad Harlem come “the Track”, e mentre i vari musicisti si sfidavano nelle “Battle of the Bands” alcuni ballerini divennero noti come “Savoy Lindy Hoppers” che si esibirono poi come “Whitey’s Lindy Hoppers” in produzioni di Broadway e Hollywood. Tra questi Shorty George Snowden, Frankie Manning, Norma Miller, Al Minns e Leon James. Al Savoy si esibì un’adolescente Ella Fitzgerald che, dopo aver vinto un talent show al Teatro Apollo nel 1934, ne divenne la cantante.
I mitici locali dello Swing ERA giunsero al loro epilogo con l’avvento di vari cambiamenti: il Cotton Club chiuse nel 1936 dopo le sommosse razziali di Harlem. Fu riaperto più tardi lo stesso anno a Broadway, nella 48ª Strada, ma chiuse definitivamente nel 1940, mentre il Savoy chiuse nel 1958 e l’edificio in cui era ospitato venne demolito e sostituito con un complesso residenziale, chiamato Delano Village.
Chiudere questa prima pagina del Magazine con questo triste epilogo è deludente e, allora, come in un rewind di una bella pellicola cinematografica, forse risulta più evocativo ed emozionante ricollegare la testina al disco e riascoltare le parole di un giornalista dell’epoca relative alle sensazioni vissute durante una notte al Savoy:
Una notte al Savoy, di Otis Ferguson (Pubblicato su The New Republic nel 1936):
“Centinaia di persone (forse in una sera molto buona arrivano a 1600) sono sulla pista o sedute ai tavoli o dinanzi al bar; lontano in un angolo c’è una fila di taxi girls, due monetine per tre balli; dal soffitto piovono delle luci rosate e dovunque succede qualcosa. Ma il centro vitale della sala è qui sopra, sul podio, dove stanno, allineati su due file, i ragazzi dell’orchestra, che battono i piedi ritmicamente e sudano sui loro strumenti, facendo sussultare il pavimento; qui, dove la campana del sousaphone sembra una luna piena che manda i suoi bagliori sui ballerini e dove la pulsante sezione ritmica – chitarra, piano, basso e batteria – imbriglia tutta questa straripante energia costringendola a seguire il tempo. E quando gli uomini di Teddy Hill cominciano a suonare l’ultimo ritornello di un loro cavallo di battaglia intitolato Christopher Columbus, con quelle trascinanti figure disegnate dagli ottoni e coi sassofoni a dargli corpo, i ballerini si scordano di ballare e si affollano attorno al podio, e lì registrano il ritmo soltanto nei muscoli e nelle ossa, restando fermi e lasciandoselo rovesciare sulle facce rivolte all’insù, come se fosse acqua (e che il valzer sia maledetto). Il pavimento sussulta, e il locale sembra una dinamo, e l’aria fumosa si innalza a onde… È una musica che anche i sordi riuscirebbero a sentire”.